Il finale della «Tirannide» e le tragedie di libertà (1963)

«La Rassegna della letteratura italiana», a. 67°, s. VII, n. 1, gennaio-aprile 1963, pp. 232-245; poi in Saggi alfieriani (1969 e 1981) e in Studi alfieriani (1995).

Il finale della «Tirannide» e le tragedie di libertà

Il trattato Della Tirannide non interessa solo come documento vivacissimo e centrale della passione politica alfieriana nel suo momento piú rivoluzionario e impetuoso: esso si presenta ricco di pagine e spunti importanti per lo studio delle tragedie alfieriane, illuminanti lo scavo psicologico della figura del tiranno e dei cortigiani, l’atmosfera della reggia, scena della maggior parte delle tragedie. Come si può constatare leggendo il capitolo III del Libro I, «Della paura», in cui la dimostrazione del singolare rapporto fra tiranno e sudditi (la paura reciproca) tende nella concitata e potente prosa alfieriana a trasformarsi in immagini suggestive che sembrano viva introduzione al clima delle stesse tragedie: «I Romani liberi, popolo al quale noi non rassomigliamo in nulla, come sagaci conoscitori del cuor dell’uomo, eretto aveano un tempio alla Paura [...]. Le corti nostre a me paiono una viva imagine di questo culto antico, benché per tutt’altro fine instituite. Il tempio è la reggia; il tiranno n’è l’idolo; i cortigiani ne sono i sacerdoti; la libertà nostra, e quindi gli onesti costumi, il retto pensare, la virtú, l’onor vero, e noi stessi; son queste le vittime che tutto dí vi s’immolano [...]. Teme l’oppresso, perché oltre quello ch’ei soffre tuttavia, egli benissimo sa non vi essere altro limite ai suoi patimenti che l’assoluta volontà e l’arbitrario capriccio dell’oppressore [...]. Ma, teme altresí l’oppressore [...]. Rabbrividisce nella sua reggia il tiranno [...] allorché si fa egli ad esaminare quale smisurato odio il suo smisurato potere debba necessariamente destare nel cuore di tutti»[1]. Né manca in questa viva rappresentazione del tiranno la sensazione della sua eccezionalità, della sua superiorità individuale sui vili che lo circondano, del suo superbo disprezzo confermato dalla conoscenza dell’altrui viltà e della sua solitudine che lo rende insieme disumano e pur grandioso e suscettibile di trasfigurazione poetica.

E quanto alla figura dell’uomo libero, specialmente il Libro II, breve ed intenso come i finali delle tragedie, ne arricchisce la psicologia e ne rappresenta la situazione drammatica nella sua naturale impossibilità a servire e quindi a vivere nella tirannide[2]: a lui rimarrà aperta solo la via del tirannicidio e «la gloria di morire da libero, abbenché pur nato servo»[3], e la sua azione si concluderà in un urto violento e spesso disperato contro il tiranno, in una specie di duello singolare in cui le due opposte concezioni morali e politiche (libertà e tirannide) si personificano in due individui ugualmente possenti ed eccezionali. Ed è evidente che da un punto di vista poetico piú dello stesso eventuale risultato positivo del gesto risolutivo ed eroico dell’uomo libero conta il gesto in se stesso, l’affermazione magnanima della propria natura, della propria vocazione alla libertà in quell’urto contro la forza del tiranno di cui l’Alfieri sente cosí altamente la suggestione come sente il fascino della morte affrontata e invocata come suprema prova di eroismo[4].

Ma nella Tirannide non manca una speranza, un elemento di fede eroica in un risultato positivo del gesto tirannicida o del sacrificio dell’uomo libero che possono provocare (ma in verità non senza qualche incoerenza rispetto alle numerose osservazioni sulla natura del popolo incline a servire, e sentito piú come inerte spettatore che attore nella lotta fra uomo libero e tiranno) un risvegliarsi improvviso del popolo e la sua insurrezione irresistibile. Ed anzi è questa speranza, questo momento ottimistico che concludono in un impeto luminoso di sogno e di immagine di vittoria il trattato, come concludono la tragedia, la Virginia, che fu concepita nello stesso stato d’animo della Tirannide. L’azione dell’uomo libero e qualche estremo sopruso del tiranno (nel caso della Virginia l’uccisione della fanciulla da parte del padre per sottrarla alla libidine del tiranno Appio) scuoteranno finalmente il popolo e la totale servitú si capovolgerà in una totale rivolta popolare e nella instaurazione della libertà.

Ma questa soluzione ottimistica, se pur corrisponde ad un momento importante dell’ideale e delle aspirazioni dell’Alfieri, non è certo la piú congeniale ai motivi piú profondi della sua poesia, a cui meglio si adattano le conclusioni tragiche e dolorose dei suoi eroi sconfitti sul terreno dei risultati pratici e – anche se, eccezionalmente, vincitori – tormentati dall’uso della violenza imposto loro dalla natura della lotta politica (donde il frequente «purtroppo», che è parola tematica alfieriana ed esprime in maniera tanto complessa quel sentimento doloroso della realtà che passerà dall’Alfieri al piú profondo motivo elegiaco della poesia foscoliana, malgrado la fede nei valori della poesia e della storia), tormentati dal sangue dovuto versare in situazioni che l’Alfieri istintivamente creava quanto mai dolorose e tali da togliere ai suoi eroi ogni possibilità di gioia e di serenità anche nel successo: Timoleone dovrà far uccidere il fratello tiranno come, piú tardi, Bruto dovrà condannare a morte i propri figli.

Sicché proprio nei riguardi delle tre “tragedie di libertà”, che l’Alfieri scrisse nel periodo piú vicino alla Tirannide, si può osservare che, come in tutte la vicinanza del trattato contribuí ad accentuare una piú aperta e diretta tendenza pragmatica ed oratoria, e a far prevalere l’aspetto piú pratico della sua poetica dello scrittore-eroe, della poesia come esortazione alla libertà[5], cosí, nella scelta delle varie soluzioni implicite nella Tirannide e nella meditazione sulla conclusione dell’azione dell’uomo libero, si può riconoscere una diversa possibilità di vita poetica di quelle tragedie, una diversa loro intonazione e profondità.

Mentre nella Congiura de’ Pazzi (che è di gran lunga la migliore delle tre tragedie) l’Alfieri sceglie la soluzione piú intensamente tragica dell’uomo libero sconfitto e suicida e nel Timoleone cerca di dar vita ad una soluzione intermedia (l’uomo libero vince, ma a prezzo della morte del fratello e quindi con un senso di dolore e di colpa che annulla in lui il risultato della vittoria), nella Virginia (che è la piú vicina alla fede eroica della Tirannide e di questa risente l’impeto piú ottimistico, la speranza rivoluzionaria) egli dà al gesto eroico di Virginia una conseguenza positiva e la tragedia si chiude con il grido del popolo insorto: «Appio, Appio muoia»[6], che preannuncia la sconfitta e la morte del tiranno, la vittoria dell’insurrezione e della libertà.

Ebbene, questa stessa soluzione, cosí insolita nelle tragedie alfieriane, può indicare la natura meno profonda e meno poetica della Virginia, la sua situazione meno corrispondente al piú profondo motivo poetico alfieriano che chiude sempre nella catastrofe della vibrazione dolorosa qui del tutto assente, come è assente ogni vero tormento e complessità nella tensione impetuosa, ma piú superficiale ed enfatica che caratterizza questa tragedia e la colloca piú sul piano della efficacia teatrale e pragmatica che della poesia. Come ben vide a suo tempo il Fubini contro l’esagerata valutazione positiva che ne dette lo stesso Alfieri nel suo Parere (per l’evidente simpatia verso una tragedia cosí corrispondente agli aspetti piú esterni, ma a lui piú chiari, della propria poetica e per il naturale omaggio ad un soggetto cosí altamente “educativo” dal punto di vista della sua volontà di persuasione alla libertà) e che era stata ripresa dal Ferrero, che parlò di capolavoro e d’«impetuoso canto di fede»[7], scambiando la fede con la poesia e non avvertendo quanto la stessa fede nella libertà sia in realtà piú suggestiva nelle grandi tragedie anche là dove non si parla di politica, e pure l’ansia di quegli inquieti eroi a liberarsi dai vincoli che li limitano può suscitare nel lettore, dentro l’impressione della poesia, una coerente tensione contro ogni ostacolo e avvilimento della libertà umana, o in una tragedia politica come La Congiura de’ Pazzi, in cui le parole di libertà vibrano cariche di allusioni a un dramma piú profondo di quello immediatamente e unicamente politico.

Perché a me pare che persino nella limitazione del Fubini e nel suo spostamento del valore della Virginia dal piano della poesia a quello della efficacia oratoria, con cui l’Alfieri avrebbe voluto dare al proprio pensiero politico una forza di chiarezza persuasiva, capace di colpire gli spettatori e di convincerli e di esortarli, ci sia una certa generosità per quel che riguarda l’effettiva forza di questa tragedia anche da quel punto di vista.

Certo la Virginia ha una sua luminosità giovanile, un suo fascino generale proprio in caratteristiche insolite nella tragedia alfieriana (l’azione si svolge nel Foro, all’aperto, in piena luce, con grande movimento di masse: Littori, Seguaci di Icilio e di Marco, Popolo) ed è indubbiamente percorsa – nella sua linea poco complessa e molto evidente – da un fresco entusiasmo per tutto ciò che è nobile e puro. Ma poi, a ben guardare, non solo quell’entusiasmo rimane esterno alla poesia, non riesce a farsi poesia e risolve azione e personaggi in un’unica dimensione (eroismo o scellerata volontà di potere, lotta fra libertà e tirannide) senza nessuna capacità di vibrazione piú intima, senza nessuna complessità; ma anche sul piano dell’efficacia non si possono non avvertire delle vere e proprie ingenuità, e quella professione continua di eroismo e di dignità di romani e di uomini liberi, lungi dal produrre una commozione solenne, un’impressione grandiosa e “classica”, rischia assai spesso di provocare un certo involontario sorriso: specie il continuo richiamo alla “romanità” come taumaturgica spiegazione di eroismo, fermezza, impossibilità di compromessi avvilenti, come formula magica che dovrebbe assicurare ai personaggi altezza e grandezza e che invece, specialmente in certe battute di Virginia, e quasi sempre in quelle della fastidiosa madre romana, Numitoria[8], finisce per creare intorno ai personaggi alfieriani una certa dignità di carattere letterario e convenzionale, una certa aura metastasiana (il Metastasio dell’Attilio Regolo e del Catone in Utica)[9].

I personaggi non vivono il tormento di situazioni limitative, appaiono troppo sicuri e unilaterali, troppo virtuosi (tutto il gruppo familiare plebeo) o troppo astrattamente scellerati (Appio e Marco), e l’impressione di semplicità e di coerenza dell’azione è piuttosto convertibile in quella della mancanza di una vita intima dei personaggi e di una piú estetica tensione insolitamente fiduciosa e ottimistica nel trionfo finale della virtú e della libertà. Né d’altra parte può dirsi che l’Alfieri non abbia tentato anche di dare una vita complessa almeno a Virginia, a Virginio e ad Appio (ridotto il tribuno Icilio ad un portavoce troppo sentenzioso delle sue massime antitiranniche), ma il tentativo è mancato e solo in Virginia vi sono momenti iniziali di maggiore delicatezza e concreta vitalità nella direzione del pudore offeso e di un tormento tenuto a lungo segreto (quasi uno scialbo preannuncio di certi temi della manzoniana Lucia!)[10]. Ma si tratta in realtà di momenti isolati e il loro parziale svolgimento sembra persino stonato con il linguaggio lapidario con cui anch’essa esprime la propria vocazione eroica e la propria situazione di fanciulla «romana» che vede in Icilio piú che l’uomo amato «la maestà del popolo di Roma» (At. I, sc. 1, v. 40). E in Appio il desiderio di Virginia è incapace di creare un intimo dramma, risolvendosi in un pretesto per affermare la propria astratta grandezza di dominatore che non tollera ostacoli al proprio potere, a cui la caratteristica di tiranno «romano» non aggiunge che un’altra nota esterna di coerenza[11], senza la minima vibrazione di quella tensione sofferta all’affermazione di sé che anima i veri, poetici tiranni di altre tragedie. Come la situazione di Virginio padre e romano non porta nessun accento profondo e la vittoria dell’uomo libero sui sentimenti di pietà del padre per la figlia sacrificata avviene facilmente attraverso qualche raro momento di esitazione e di sospensione tragica che sembra chiaramente imitare dall’esterno alcuni grandi momenti di altre tragedie[12]: e davvero qui i puntini sospensivi, che altrove corrispondono a supreme esitazioni, a dolorose lotte interiori, rimangono puri espedienti grafici, come avviene nel finale anche nella battuta ultima della trafitta Virginia che alla declamazione del padre, priva di ogni accento di pietà e di commozione («Ultimo pegno / d’amor ricevi – libertade, e morte»), risponde con parole che corrispondono solo alla sua motivazione di astratto eroismo, alla nozione “virtuosa” del legame familiare di questi eroi romani: «Oh... vero... padre!...» (At. V, sc. 4, vv. 249-251).

Il linguaggio è qui insolitamente privo di vibrazioni dolenti, elegiache, tormentose, tutto è sin troppo chiaro e monotono, come l’azione che corre verso la soluzione del gesto “romano” di Virginio e verso la insurrezione del popolo, senza quegli ingorghi di ansie e contrasti che non mancano mai nella vera poesia alfieriana e senza quel finale momento di alta elegia, di orrore, di delusione, di disperato eroismo, che qui è sostituito dal grido di sdegno e di combattimento di un popolo fino allora inerte e credulo, e sostanzialmente ridotto sin allora ad un coro del tutto inutile all’azione. Ed anche in questa natura del popolo, la cui presenza costituisce una caratteristica della Virginia, si può trovare un’altra riprova sia della singolarità di questa tragedia diversa dalle altre, in cui compaiono solo precisi individuati personaggi, sia, sul piano stesso della efficacia oratoria, del suo fallimento: perché quel popolo (che l’Alfieri, poeta degli individui, cosí poco sentiva) è davvero goffo nei suoi commenti incerti e stonati e la sua voce, che dovrebbe essere potente e grandiosa, risulta invece debole, esitante e facilmente superata e interrotta da quella dei personaggi che alla presenza del popolo discutono la causa di Virginia e della libertà. Come avviene, con effetto piuttosto ridicolo, alla fine della scena terza dell’Atto primo, quando dopo una lunga tirata di Icilio culminata nel desiderio e nell’immagine sperata di un cambiamento della situazione politica in Roma («Ma i tempi, spero, cangieransi; e forse / n’è presso il dí...»), il popolo tenta di inserire una sua battuta di consenso e di prudente distinzione e di dubbio («Deh, il fosse pur! Ma...»), e questa viene interrotta da Marco che neppure la raccoglie e risponde ad Icilio: «Cessa; / non piú: tribun di plebe or qui vorresti / rifarti forse?» (vv. 232-235).

Molto piú degna di attenzione, da un punto di vista poetico, della Virginia (che pure rappresenta un momento singolare nello svolgimento della tragedia alfieriana in relazione alla Tirannide e un tentativo di tragedia tutta politica e risolta in un sogno di vittoria vivo nell’animo alfieriano, ma alieno dalla sua piú autentica ispirazione poetica), è certamente La Congiura de’ Pazzi, ideata pure nel 1777 (e poi stesa nel ’78 e verseggiata in prima redazione nel ’79).

Questa nuova tragedia “di libertà” (anch’essa cosí vicina alla Tirannide di cui riprende tante massime e motivi, anch’essa ispirata al tema della lotta fra uomini liberi e tiranni su di un piano apertamente politico) fu concepita e svolta però in una direzione tanto piú congeniale alla poesia alfieriana, in una impostazione piú tragica e profonda, in un ritmo di tensione tormentosa e in una soluzione disperata ed eroica che tanto meglio si adattano alla natura dell’animo poetico alfieriano e ne fanno affiorare (anche se non con continuità, ché in questa tragedia vi son pure larghe zone piú opache e ristagnanti e manca l’unità e la costanza di intensità delle tragedie piú grandi) note intime e veramente poetiche. Prova questa di come anche un soggetto politico potesse (contro alcune interpretazioni piú risolute in tal senso, come quella del Momigliano, che non trova diversa la Congiura dalla Virginia e dal Timoleone) permettere risultati poetici quando il poeta sapeva superare l’equivoco dell’efficacia oratoria e sentenziosa, far vibrare nella situazione politica, nella tensione alla libertà l’eco di un dramma piú profondo e generale, dando allo stesso dramma politico un significato piú alfieriano proprio nel rifiuto di ogni ottimismo e nell’accettazione di un contrasto tanto piú vero nell’uomo libero, eroico-poetico perché sfortunato, consapevole della resistenza estrema della realtà e tuttavia contro questa virilmente combattivo e restio ad ogni compromesso e rinuncia.

Ogni ottimismo, ogni facile speranza sono assenti dalla Congiura e l’uomo libero (il personaggio interessantissimo di Raimondo), incapace di sopportare una servitú che è per lui (come per l’uomo libero della Tirannide) una “non vita”, accetta una lotta difficile anche a costo della propria morte e della disfatta, contando soprattutto sul proprio eroismo, consapevole della natura degli uomini, per lo piú incapaci di sacrificio e amici del successo e dei vincitori. Sicché, in un’aura di pessimismo virile tanto piú congeniale all’animo poetico dell’Alfieri, l’azione sarà tutta nelle mani di pochi individui e l’eroe saprà che il popolo seguirà il vincitore e si accanirà sul vinto. Quando nel finale la moglie Bianca, udendo il grido della moltitudine che vuole a morte il traditore, chiede a Raimondo chi è il traditore, Raimondo risponde con l’amara consapevolezza realistica degli eroi alfieriani: «Il traditor,... fia... il vinto»[13]..La realtà è, in questa tragedia, ostile e dolorosa e l’uomo libero invano tenta di trasformarla, invano lotta eroicamente contro il limite che lo circonda, contro la situazione di servitú di cui sente tanto tormentosamente il peso oppressivo, diversamente dagli eroi troppo sicuri ed astratti della Virginia; cosí come sente, tanto meglio di quelli, la fragilità della natura umana, e nel suo furore di libertà sente insieme la difficoltà di realizzarla e la forza dei sentimenti piú dolci («l’appassionatissimo umano stato di padre e marito» di cui si parla nel cap. 8 del I Libro della Tirannide) che egli deve vincere nella sua lotta.

Raimondo (che è la figura centrale, animatrice della tragedia) è personaggio complesso e vitale, e nella sua voce eroica e dolente quale intenso valore poetico assumono certi versi che vibrano della sua profonda pena del servaggio politico e alludono poeticamente alla sofferenza alfieriana del servaggio degli uomini in una vita piena di limiti, in una realtà che non risponde alla loro aspirazione di infinita libertà, al bisogno di affermare pienamente la loro personalità! Quando Raimondo, proprio con i primi versi della tragedia, dice al padre: «Soffrire, ognor soffrire? Altro consiglio / darmi, o padre, non sai?» (At. I, sc. 1, vv. 1-2), o quando nella prima scena dell’Atto quinto compiange la sorte dei figlioletti lasciati a vivere «in questa morte, che nomiam noi vita» (v. 74)[14], noi sentiamo che in quelle potenti espressioni, sotto il riferimento immediato al dramma politico (che cosí ne viene potenziato poeticamente) vive un’allusione piú profonda alla tragica situazione degli uomini che la poesia alfieriana, seppure senza una chiara coscienza razionale, effettivamente rappresenta con tanta energia e con tanta concretezza di vivi personaggi. Come appunto è vivo soprattutto Raimondo (individuo potente per forza, tensione individualistica, alto senso di sé, e insieme tormentato, ricco di affetti, consapevole della realtà umana, capace di alti accenti elegiaci e dolorosi); come vivo è anche il padre, Guglielmo, la cui figura è però in parte svolta, piú che nell’azione, nella parola del figlio che cosí bene ne colorisce la fondamentale componente poetica della vecchiaia e della prudenza che l’esperienza della vita è venuta accumulando sopra il suo naturale ardore di libertà[15]: quell’ardore che poi, mercè l’opera del figlio e le circostanze, torna a divampare con tanta suggestione poetica in lui nell’ultima parte della tragedia, prima del finale in cui quella fiamma si è di nuovo spenta e Guglielmo compare di nuovo vecchio e sconfitto, dolorosissima immagine della debolezza senile, essenziale a quella catastrofe possente e complessa.

E se la figura di Bianca, moglie di Raimondo, è piuttosto debole e troppo lontana dalla base eroica che non manca mai alle grandi figure femminili alfieriane, la sua trepidazione di sposa dell’uomo libero e di sorella dei tiranni introduce nella tragedia un altro elemento spesso efficace di elegia e di contrasto familiare. Mentre nel gruppo dei tiranni, accanto alla figura piú meccanica di Giuliano, tiranno subdolo e calcolatore, grandeggia notevolissima quella di Lorenzo, impetuoso e violento, «non degno quasi / d’esser tiranno» come dirà di lui Guglielmo[16]. E la sua feroce violenza ben contribuisce alla forza del finale, in cui alla sua vittoriosa gioia di vendetta corrisponde l’altezza di elegia e di eroismo di Raimondo che nel suicidio si libera mentre, nell’amara constatazione della sua disfatta e della viltà del popolo che segue il vincitore, ribadisce la sua consapevolezza dolorosa della vanità pratica della sua azione antitirannica: poiché, come dirà nel trattato Del Principe e delle lettere, l’Alfieri deve pur concludere che «la forza governa il mondo (pur troppo!)» (Libro I) e che la morte, piú che il successo, è la meta dell’uomo libero.

Il Timoleone (ideato nel 1779 e verseggiato in prima redazione nell’81) rappresenta invece un tentativo fallito, seppure interessante per successivi sviluppi della poesia alfieriana, di riproporre lo schema politico del contrasto fra uomo libero e tiranno con la vittoria del primo, ma in una situazione singolare di legame di affetti e di sangue fra i due rivali, che sono fratelli, e con un finale in cui, mentre il tiranno riconosce le ragioni del fratello uomo libero, questi considera amaramente l’azione che ha condotto Timofane a morte, desidera la morte, si sente carico di colpa e di rimorsi. Vi è in questo finale il riflesso di un compromesso fra la soluzione ottimistica della Virginia e quella disperata della Congiura, cosí come tutta la tragedia sembra un compromesso poeticamente inefficace ed incerto fra la complessità e il tormento dei personaggi centrali della Congiura e la linearità, l’entusiasmo vivo, anche se non realizzato poeticamente, della Virginia. E il Timoleone è davvero la peggiore delle tre tragedie di libertà, ed ogni spunto poetico rimane sul piano di un’astratta psicologia e di una velleità priva di forza e di intensità passionale, mentre non ha neppure quella certa freschezza luminosa che notammo nella Virginia, e la stessa azione si svolge schematica e fredda, con personaggi costruiti senza ispirazione come semplici portavoce di ragionamenti politici, entro un’atmosfera grigia e scialba a cui corrisponde un linguaggio monotono e senza echi. Tanto che (escluso un vero valore poetico anche al finale cosí incerto, prolungato e privo di ogni dinamismo nella contrapposizione cosí sterile della “conversione” finale del tiranno e della disperazione senza magnanimità dell’uomo libero soffocato dai rimorsi e dalla pietà fraterna[17] e, oltre tutto, troppo languido nella serie interminabile di esitazioni e di incomprensioni del tiranno e dell’uomo libero che si decidono ad agire dopo aver piú volte tentato di reciprocamente convertirsi alle opposte concezioni politiche) la tragedia può serbare un certo interesse piú che come accumulo di intenzioni di un tiranno e di un tirannicida legati dal sangue (contrasto fra un disegno politico e un affetto che ne ostacola la realizzazione), come raccolta di sentenze politiche, di dimostrazioni di opposte concezioni che riprendono e in parte integrano le posizioni (del resto molto piú appassionate ed intese) della Tirannide. Può interessare cosí la tesi sostenuta da Timofane circa le ragioni “popolari” di un regime dispotico e assoluto, come corollario (piú spiegato da parte di chi non le condivide ma le vuole avere di fronte in maniera piú chiara) di certi passi della Tirannide circa il dispotismo illuminato. E sono le battute di Timofane nella prima scena del primo Atto, in cui egli contrappone la sua dittatura a favore dei molti alla democrazia corrotta in oligarchia («Ogni opra mia, / esecutrice è del voler dei molti: / dolgonsi i pochi; e che rileva?»[18]); o nella scena quarta dell’Atto terzo, in cui espone gli eterni pretesti di ogni dittatura: ordine interno, esecuzione rapida di provvedimenti a beneficio del popolo, forza e gloria dello stato nelle relazioni con l’estero: «Vedrà Corinto e Grecia, esser non sempre / rea la possa d’un sol: vedrà, che un prence, / anco per vie di sangue al trono asceso, / lieto il popol può far di savie leggi; / securo ogni uom; queto l’interno stato; / tremendo altrui, per l’eseguir piú ratto; / forte in se stesso, invidïato, grande...» (vv. 238-244).

Mentre Timoleone opporrà le vere opinioni dell’Alfieri in una specie di dibattito interessante, ma assolutamente impoetico, svolto alla presenza di Echilo, che sarà l’esecutore materiale del tirannicidio, e di Demarista, la madre, che propende per il figlio tiranno e segue, senza nessun vero intervento, l’azione di questo. Dibattito in cui l’uomo libero dimostra la superiorità della libertà e dei regimi liberi, in cui solo si può parlare di patria: «La patria viva, è nelle sacre leggi; / negli incorrotti magistrati, ad esse / sottoposti; nel popolo; nei grandi; / nella unïon de’ non mai compri voti; / nella incessante, universal, secura / libertà vera, che ogni buon fa pari: / e, piú che tutto, è della patria vita / l’abborrir sempre d’un sol uomo il freno» (At. IV, sc. 1, vv. 53-60). Ma a questo interesse meditativo non corrispondono se non velleità non realizzate[19] e sempre legate ad uno schema di rappresentazione teatrale di una discussione politica piú che ad un nucleo poetico genuino.

Nell’autunno del 1784 l’Alfieri, durante il soggiorno in Alsazia accanto alla d’Albany, aveva ripreso quell’attività tragica, il cui abbandono era risuonato cosí doloroso in alcune delle sue rime dell’83-84.

Passò stagion, che a lagrimare invito

io fea su i casi d’infelici eroi,

libero volo alzar tentando ardito.

aveva detto nel sonetto 80, in cui pure esprimeva l’insoddisfazione della semplice attività delle rime («Io d’altro tema in ver vorría far versi, / che non di pianto e d’amorosi lai»[20]). Ed ora, ritrovatosi, come dice nella Vita, «di bel nuovo interissimo di animo di cuore e di mente», malgrado le promesse fatte dopo il Saul di non scrivere piú tragedie (ma il sonetto citato indica un rimpianto che è anche un desiderio intenso), si ritrovò, «senza accorger[sene] quasi, ideate per forza altre tre tragedie ad un parto»[21]: Agide, Sofonisba, Mirra.

Per quanto l’Alfieri tendesse a distinguere nettamente l’attività tragica dagli «amorosi lai» (ma certo le rime alfieriane furono ben altra cosa che semplici “sospiri d’amore”), questa nuova ripresa tragica è fortemente legata alle Rime e, mentre queste si dispongono spesso in atteggiamenti da tragedia, nelle nuove tragedie, specie nelle meno profonde, Agide e Sofonisba, si risente la presenza di una inclinazione meno violentemente tragica, il prevalere di un’intonazione elegiaca e lirica, una maggiore disposizione a far “parlare” piú che agire i personaggi, a contemplare di questi gli atteggiamenti magnanimi, generosi, “sublimi”, altruistici, a circondarli di una luce di pietà e di ammirazione (far «lagrimare» «su i casi d’infelici eroi»), coerente al clima sentimentale delle Rime, all’esuberanza di elementi elegiaci e affettuosi, ai temi del “vivere in altri”, del sacrificio della propria persona in favore della persona amata, della miseria e nobiltà della natura e della sorte umana. Temi che portavano ora l’Alfieri a vagheggiare piú le vittime infelici che i potenti individualistici tiranni delle sue tragedie giovanili e ad esprimere nei suoi nuovi personaggi, piú che la tensione individualistica e il prepotente bisogno di azione e di liberazione, una singolare “sublimità” di sentimenti generosi e altruistici, un mondo di affetti intimi, “umani”, familiari (amore, amicizia), che, se sorgono sempre su di una base di eccezionale nobiltà spirituale, di aristocratica distinzione da una umanità mediocre, mancano del forte sostegno tragico, del sicuro raccordo con il grande motivo tragico alfieriano. Questo tornerà a vivere solo nella Mirra, che nasce dalle zone piú profonde dell’animo alfieriano e usufruisce positivamente della nuova piú vasta esperienza poetico-sentimentale delle Rime, superando nettamente l’ambito piú patetico-elegiaco delle due prime tragedie, e porta di nuovo unità e profondità di azione drammatica in questo mondo poetico piú espanso e frammentario, ricchissimo di atteggiamenti e di espressioni di estrema finezza, ma privo del piú genuino scatto tragico, di quel potente schema di contrasto, di quella forza del personaggio che solo appunto nella Mirra si ripresenterà, anche se in condizioni nuove e piú intime. Alle quali cosí fu non inutile l’esercizio delle Rime e delle due prime tragedie, in sé e per sé deboli e dispersive, tali da far pensare ad un Alfieri ormai incapace di recuperare la sua vera natura tragica, declinante verso un’espressione prevalentemente patetico-elegiaca a cui l’azione tragica sarebbe stata solo pretesto, esterna struttura letteraria.

Debolissima, infatti, e piú intellettualmente complicata che poeticamente complessa ed efficace è l’azione dell’Agide, la cui stessa composizione faticosa[22] può indicarne la scarsa sicurezza ispirativa, e la difficoltà dell’Alfieri nel riferire il suo ricco mondo sentimentale ad un personaggio drammatico che superasse atteggiamenti e parlate in un’azione organica, che unisse insieme la sua capacità di singole espressioni patetico-elegiache, specie nella direzione di affetti privati, con un nucleo drammatico effettivo. L’Alfieri ricorse cosí allo schema politico che aveva tante volte sperimentato e che implicava un piú facile effetto di contrasto (uomo libero-tiranno), ma, nell’urgere confuso di nuove meditazioni sulla politica e sugli stessi tiranni, egli finí per complicare lo stesso schema politico privandolo della sua stessa efficacia oratoria (piú genuina e forte nelle prime “tragedie di libertà”) e caricandolo di velleità e di motivi non ben chiariti o addirittura non sentiti e non congeniali alla vera natura dei suoi ideali e sentimenti politici. Infatti nella ripresa di una «vita» plutarchiana (la vita del re spartano Agide che viene ucciso nel tentativo di restaurare le leggi egualitarie di Licurgo), l’Alfieri volle dare un particolare contenuto al suo tema della “libertà” (che è libertà dell’individuo e non implica alcuna preoccupazione di eguaglianza sociale e comunità di beni, ché semmai il pensiero politico alfieriano vagheggiò una società in cui la libertà fosse appoggiata alla proprietà privata), come eguaglianza sociale ed economica; sicché le stesse generose declamazioni di Agide in lode della “divina eguaglianza” suonano astratte, non sentite dal poeta[23]. Mentre, d’altra parte, la stessa impostazione di Agide come re “liberatore”, come re preoccupato del bene del suo popolo e disposto a sacrificarsi per questo nella maniera piú umiliante per un re (a un certo punto è pronto a riconoscersi colpevole, a morire carico di infamia purché l’altro re, Leonida, faccia suo il programma di eguaglianza!), corrisponde sí ad una lunga meditazione dell’Alfieri sulle possibilità di una conversione dei re in uomini liberi sulla base della loro forte radice umana (il sonetto a Federico II), e al vagheggiamento di una soluzione del problema della libertà mediante il gesto magnanimo di un re liberatore[24]; ma questa meditazione e questo vagheggiamento non hanno raggiunto quella certezza sentimentale che aveva invece raggiunto la fede nella soluzione violenta e rivoluzionaria del problema politico nella Tirannide e nelle giovanili tragedie di libertà.

Cosí la stessa impostazione politica, che avrebbe dovuto sorreggere l’azione della tragedia e dare una base concreta alla “sublimità” sentimentale di Agide, alle espressioni piú intime e poetiche dell’eroe infelice, della vittima pura, del personaggio altruista e ricco di affetti privati, agisce invece come ulteriore limite delle possibilità di sviluppo drammatico di quest’opera complicata e senza centro tragico, costruita per giustificare la rappresentazione di un eroe magnanimo, “sublime”, esemplare, che viceversa esaurisce la sua vitalità in frammentarie battute elegiache, privo com’è di una vera tensione attiva e, a forza di sublimi rinunce altruistiche, reso passivo e immobile, vittima senza lotta, eroe senza azione e senza forza individuale: diciamo pure un personaggio assurdo nel mondo dei personaggi alfieriani, sempre dotati di istinto dell’azione e di forte, prepotente individualità; anche se tale risultato era il corrispettivo di una significativa tendenza dell’Alfieri di questo periodo, volto a cercare nobiltà ed eroismo in sentimenti generosi e persino delicati, ad arricchire i suoi personaggi di una sensibilità piú umana e altruistica, di una luce di compassione e di ammirazione.

Atteggiamento coerente a certi tipici atteggiamenti delle Rime e capace di portare la poesia alfieriana nella Mirra al piú alto incontro di delicatezza e di forza, di finezza sentimentale e stilistica e di profonda tragicità; quando, però, appunto nella Mirra, questo ricco mondo sentimentale sarà investito e giustificato da una nuova e potente intuizione tragica, bruciando i suoi margini piú esterni di patetico e di “sublime” immobile e vagheggiato piú che attivamente rappresentato.

E certo colpisce lo sforzo alfieriano di dare ad Agide i caratteri piú eletti e puri di un eroe “sublime”, disgustato dell’uso della violenza, difeso solo dalla sua innocenza («Solo, ed inerme, ed innocente»; At. II, sc. 4, v. 300); ma questo sforzo non si traduce nella creazione di un personaggio vitale, quei sentimenti alti non si concretano in una passione animatrice di azione, ché lo stesso sacrificio di Agide è troppo scontato sino dall’inizio, è troppo facile e senza tormento e (a parte l’assurdità delle speranze del re liberatore – persuadere Leonida, rappresentante della classe conservatrice, e il popolo spartano abbiente a farsi esecutori del suo programma egualitario, mentre rifiuta invece l’appoggio della plebe per disgusto della violenza) la sua stessa morte, inutilmente protratta in un’attesa passiva e languida, ha luogo fuori della tipica ansia liberatrice degli eroi alfieriani, in un finale scialbo e sommesso.

Né d’altra parte par giusto cercare, come fa Fubini[25], una maggiore vitalità in altri personaggi della tragedia e specie in Leonida, la cui figura di tiranno piú risoluto e bramoso di regno è solo pallida imitazione di ben altre figure alfieriane e la cui azione, mentre è troppo facilitata dall’atteggiamento passivo di Agide (sí che non ha il rilievo, l’intensità di altre azioni di personaggi alfieriani il cui bisogno di affermazione e di dominio è intensificato dagli stessi ostacoli che lo contrastano), risente pure di quella inclinazione piú sentimentale che in certi punti la incrina (sí che il tiranno dovrà essere sollecitato spesso all’azione dal consigliere Anfare) e che è certo il tono piú caratteristico della tragedia anche se incapace di sollevarsi a elemento di organica ispirazione.

Si è risospinti cosí a cercare in questa tragedia non personaggi, non azione, ma solo frammentarie espressioni piú liriche ed elegiache che drammatiche, specie nella direzione di sentimenti privati e familiari, sui temi della pietà, della generosità altruistica, della gara d’affetti fra persone legate dall’amore. Si leggano cosí le scene dell’incontro fra Agide e la moglie Agiziade (Atto secondo, scena seconda), la quale – figura lieve, appena delineata, di delicata pietà familiare[26] – torna al marito appena ne conosce lo stato di sventura, come prima lo aveva lasciato per soccorrere il padre Leonida, quando (nell’antefatto) questi era stato bandito da Sparta. O si legga la scena del loro addio estremo (Atto quinto, scena seconda), in cui, pur fra punti deboli legati proprio alla scarsa consistenza dei personaggi, si possono recuperare momenti poetici, quasi brevi liriche che traducono con efficacia poetica la tensione sentimentale che l’Alfieri viveva nel vagheggiare una situazione di dolore e di affetto, di gara generosa “tenera” e “sublime”, sul tema, per lui cosí ossessivo, del “sopravvivere amando”, che qui viene appunto preso e ripreso sino alla parlata piú piena e intensa di Agide:

In somma, pensa,

che, te viva, non muore Agide intero.

In volgar donna ammirerei, qual prova

d’amore immenso e di valor sublime,

il non voler sorvivere al consorte;

ma da te spero, e da te chieggio, e il dei

d’Agide moglie, ad infelice vita

tu dei serbarti, intrepida, pe’ figli...

Piangendo io ’l chieggo; e ti rimanga in core

questo mio pianto... Ah! per te sola al fine,

e pe’ fanciulli nostri, Agide hai visto

lagrimar oggi.

(vv. 90-101)

Nell’Agide si assiste cosí ad uno svolgimento piú apertamente altruistico e sentimentale dell’“uomo libero” già iniziato nella figura di Timoleone e ad un chiaro allontanamento dallo schema politico tipico della Tirannide e del suo momento piú rivoluzionario ed estremistico.

Eppure questa flessione invano tentata di infrenare e raddrizzare nelle ultime tragedie politiche, Bruto primo e Bruto secondo[27], ha anche un suo significato positivo se viene considerata non astrattamente e viene immessa nel complesso svolgimento della poesia alfieriana al di là del debole risultato dell’Agide: essa importa un tentativo di umanizzare la figura stessa del tiranno (ora re liberatore), di costruire personaggi piú complessi partendo dal tiranno-vittima del Saul per salire alla grandissima figura di Mirra, in cui gli elementi qui troppo sentimentali e lagrimosi collaborano, liberati del loro eccesso sublime, ad una vita poetica piú fusa di forza e di tenerezza, di delicatezza e di eroismo, in cui la politica scompare per dar luogo al piú diretto e profondo dramma della situazione umana dopo aver assolto il compito, all’interno della poetica alfieriana, di sollecitare, con il suo urto piú aperto e appassionato, il fondo piú vero della grande poesia alfieriana.


1 Scritti politici e morali cit., I, pp. 16-17.

2 «II vivere senz’anima, è il piú breve e il piú sicuro compenso per lungamente vivere in sicurezza nella tirannide; ma di questa obbrobriosa morte continua (che io per l’onore della umana specie non chiamerò vita, ma vegetazione) non posso, né voglio insegnare i precetti [...]. Io dunque parlerò a quei pochissimi, che degni di nascere in libero governo fra uomini, si trovano dalla sempre ingiusta fortuna, direi balestrati, in mezzo ai turpissimi armenti di coloro, che nessuna delle umane facoltà esercitando, nessuno dei diritti dell’uomo conoscendo, o serbandone, si vanno pure usurpando di uomini il nome». Si noti che l’uomo libero nella tirannide è d’altra parte piú grande e deve «estimare sé stesso ancor piú che se fosse nato libero in un giusto governo; poiché liber’uomo egli ha saputo pur farsi in uno servile» (ivi, pp. 88-90).

3 Ivi, p. 91.

4 Importante in proposito un sonetto del ’78 (uno dei rari sonetti significativi prima degli anni piú ricchi di rime) in cui il dramma politico rivela chiaramente la sua relazione con un dramma spirituale piú profondo (le «angosce» non sono solo quelle del servaggio politico, ma quelle di un servaggio dell’uomo entro un ordine universale limitativo ed ostile): «Bieca, o Morte, minacci? e in atto orrenda, / l’adunca falce a me brandisci innante? / Vibrala, su: me non vedrai tremante / pregarti mai, che il gran colpo sospenda. / Nascer, sí, nascer chiamo aspra vicenda, / non già il morire, ond’io d’angosce tante / scevro rimango; e un solo breve istante / de’ miei servi natali il fallo ammenda. / Morte, a troncar l’obbrobrïosa vita, / che in ceppi io traggo, io di servir non degno, / che indugj omai, se il tuo indugiar m’irrita? / Sottrammi ai re, cui sol dà orgoglio, e regno, / viltà dei piú, ch’a inferocir gl’invita, / e a prevenir dei pochi il tardo sdegno» (Son. 18; Rime cit., p. 16).

5 Il sonetto premesso al trattato accetta l’accusa di politicità e di monotonia fatta alle tragedie, glorificandone il «sí sublime scopo» e proclamando la fedeltà del poeta ad esso. In realtà quell’impegno, che (come si può vedere parlando della poetica alfieriana nel trattato Del Principe e delle lettere) sconvolgeva la tradizionale concezione del letterato, fu accolto dalla critica romantica troppo alla lettera, e come si estese la pecca praticistica dello “scopo politico” a tragedie non politiche, cosí non si cercò sotto il dramma politico il grande dramma personale e storico cosí importante per la crisi della civiltà illuministica nelle inquiete aperture preromantiche.

6 V. Alfieri, Virginia, Testo definitivo e redazioni inedite, ed. critica a cura di C. Jannaco, Asti, Casa d’Alfieri, 1955, p. 98.

7 G.G. Ferrero, Alfieri, Torino, Chiantore, 1945, p. 139 (la prima parte del volume, che comprende la frase citata, era stata già pubblicata col titolo L’anima e la poesia di V. Alfieri, Torino, Paravia, 1932, 2a ed. rinnovata ivi, 1939).

8 La prova infallibile che Virginia adduce della sua nascita contro le pretese di Marco che la dice nata schiava è appunto il sentimento della propria romanità: «mi sento in petto / libera palpitar romana l’alma; / altra l’avrei, ben altra, ove pur nata / d’un vil tuo par schiava piú vil foss’io» (At. I, sc. 2, vv. 105-108). E Numitoria, alla presenza di Appio, appoggerà la sua testimonianza sulla sua qualità di madre romana e plebea (altro motivo di orgoglio ripetuto a sazietà in questa tragedia): «Ciò che asserir romana madre ardisce / (romana sí, e plebea) creder dovrassi / men che i sozzi spergiuri di chi infame / traffico fanne?» (At. II, sc. 3, vv. 101-104).

9 E se non potesse sembrare irriverente, ricorderei un sonetto del Belli in cui una nobildonna che rifiuta un dono troppo modesto del suo cavalier servente motiva il rifiuto con la frase orgogliosa: «Sono romana!» (Son. La bbefana, v. 6; in G.G. Belli, I Sonetti, a cura di G. Vigolo, 3 voll., Milano, A. Mondadori, 1952, III, p. 2488).

10 Si veda specialmente la scena quinta dell’Atto primo in cui, a Numitoria ed Icilio, Virginia si risolve, con una certa esitazione di vergogna, a rivelare che «Appio, è gran tempo, / d’iniquo amore arde per me...» (vv. 267-268), e racconta le proprie sofferenze, costretta a dissimulare a causa della lontananza del padre: «Rivi di pianto tacita versai; / e al mio dolor pietosa, lagrimava / spesso la madre, e non sapea qual fosse» (vv. 283-285).

11 Inoltre (i difetti di questo genere risultano di piú proprio quando manca la poesia) si può notare come alla postulata sicurezza di preveggenza del tiranno faccia contrasto il grave errore commesso credendo di prevenire il ritorno di Virginio, che invece giunge in tempo per turbare i piani di Appio.

12 Cosí è chiara la ripresa esterna e fiacca di un grande momento dell’Agamennone (quando Clitennestra comprende nelle parole di Egisto la necessità dell’uccisione del marito) nella battuta di Virginio che intende nelle parole di Icilio (il quale enuncia la massima della Tirannide secondo cui meglio sarebbe uccidere i figli che farli vivere schiavi) la necessità del suo gesto finale: «Orribil lampo / tralucer fammi il parlar tuo» (At. III, sc. 3, vv. 240-241).

13 V. Alfieri, La Congiura de’ Pazzi, Testo definitivo e redazioni inedite, ed. critica a cura di L. Rossi, Asti, Casa d’Alfieri, 1968, p. 91 (At. V, sc. 5, v. 231).

14 Per la significativa ripresa di simili versi della Congiura nella poesia leopardiana rimando al mio saggio del 1962 Leopardi e la poesia del secondo Settecento, ora in La protesta di Leopardi, Firenze, Sansoni, 1973, nuova ed. accresciuta ivi 1982 (19893) pp. 157-216. Sullo stesso argomento si veda ora W. Binni, Lezioni leopardiane, a cura di N. Bellucci, con la collaborazione di M. Dondero, Scandicci (FI), La Nuova Italia, 1994, specialmente il cap. IV.

15 Vedi scena seconda, Atto primo. Raimondo: «Quanto in servir fa dotto / la gelida vecchiezza! – Ah! se null’altro, / che tremare, obbedir, soffrir, tacersi, / col piú viver s’impara; acerba morte, / pria che apparar arte sí infame, io scelgo» (vv. 119-123). Piú tardi (scena prima, Atto terzo) il vescovo Salviati (l’altro congiurato che non riesce ad uccidere Lorenzo e che nella tragedia vive una vita assai debole e scarsamente poetica) perfezionerà la descrizione della psicologia del vecchio Guglielmo rilevando l’efficacia che avrebbe in lui il consenso del Papa alla congiura, poiché: «in cor senil possenti / que’ pensier primi, che col latte ei bevve, / son vie piú sempre» (vv. 73-75). Che, oltre tutto, è uno degli altri acuti scandagli nell’animo umano di cui è ricca questa tragedia.

16 At. V, sc. 5, vv. 157-158. Significativo approfondimento della figura del tiranno che agli occhi dell’Alfieri rivelava nel tiranno una disposizione radicale di grandezza al male e al bene, una natura di creatura superiore che spiega in parte lo speciale fascino che essa veniva esercitando sul poeta, come dimostrano anche alcuni accenni della Tirannide e il sonetto per la morte di Federico II.

17 Timoleone vorrà uccidersi, ma non riuscirà a prendere il pugnale di Echilo! Ed anche in questa sua velleità inetta si rivela l’incertezza di questo personaggio e la perplessità dell’Alfieri nel risolvere questa debole figura che non era nata dal suo animo poetico, ma era stata costruita come esempio di eroe combattuto fra amore di libertà e amore fraterno.

18 V. Alfieri, Timoleone, Testo definitivo e redazioni inedite, ed. critica a cura di L. Rossi, Asti, Casa d’Alfieri, 1981, p. 25 (vv. 55-7).

19 Tali sono in realtà il motivo dell’irresistibile attrazione del regno che Timofane a un certo punto confessa in contrasto con un fugace riconoscimento della verità della concezione di libertà di Timoleone (III, sc. 4), o la riluttanza di Timoleone ad agire contro il fratello (III, sc. 5) con il motivo del «purtroppo» cosí alfieriano, ma qui cosí esterno e debole. Motivi che nascono, piú che da una intera intuizione meditativo-fantastica, da una meditazione sulla natura del tiranno e d’un singolare rapporto fra tiranno e uomo libero: nella sua singolarità piuttosto artificiosa. Anche se era pur questa una via importante della meditazione alfieriana sui limiti dell’azione dell’uomo libero e sulla complessità del «tiranno».

20 Rime cit., p. 72 (vv. 9-11 e 1-2).

21 Vita cit., I, p. 258.

22 La tragedia fu ideata il 30 agosto 1784 in Alsazia. La stesura in prosa fu iniziata a Pisa il 14 dicembre dello stesso anno, ma, presto interrotta, fu compiuta solo nel dicembre dell’85. La prima versificazione fu eseguita dal 14 maggio al 24 giugno 1786. Si tenga conto soprattutto della lunga interruzione della stesura, che l’Alfieri abitualmente scriveva invece di seguito, senza intervalli di tempo.

23 E sembrano addirittura piú sue le violente invettive di Leonida e di Anfare contro la «ribellante compra infima plebe» (At. IV, sc. 3, v. 121; Agide cit., p. 59), che consuonano con tante espressioni alfieriane nelle Satire e nel Misogallo. Quanto alla sua concezione sociale, si pensi al sonetto XVI del Misogallo, che delinea l’ideale repubblica alfieriana in cui l’individuo è garantito in tutte le sue libertà, compresa quella economica: «Ov’io di ricco non son fatto ignudo» (v. 7; in Scritti politici e morali, III cit., p. 261).

24 Questo motivo, che è svolto anche nella dedica della tragedia a Carlo I (quasi a riprendere e a correggere una intuizione e una esitazione dell’Alfieri del 1775, che scrisse un’Idea e iniziò la stesura di una tragedia intitolata al re inglese decapitato nel 1648), si collega ad altri significativi documenti alfieriani: al Panegirico di Plinio a Trajano dell’85 (in cui Plinio vuole indurre Traiano a restituire la libertà al popolo romano; ma, si badi bene, la conclusione di quel sogno introdotto nella storia è pessimistica: Traiano si commuove, piange, ma a lui rimane l’impero e a Plinio e ai senatori la servitú), ed alla lettera – non inviata però – che l’Alfieri diresse a Luigi XVI il 14 marzo 1789 invitandolo a distruggere «l’affreux despotisme» prevenendo i desideri e l’azione del popolo francese (cfr. Epistolario cit., II, pp. 5-6).

25 M. Fubini, Vittorio Alfieri cit., pp. 315-323.

26 «Fida compagna a chi piú avverso ha il fato» (At. II, sc. 2, v. 55), Agiziade riprende certe caratteristiche di Micol e sembra quasi anticipare la tipica posizione della Ricciarda foscoliana. Ma anche Agiziade è piú ancora di Agide solo una lieve figura, non un compiuto personaggio, e la stessa finissima intuizione della sua posizione di sollecita soccorritrice di chi, tra i suoi familiari, si trova nella sventura, si svolge in realtà con un certo schematismo, e troppo si affida alla descrizione un po’ troppo “esemplare” che ne fa Agide, cosí come la magnanimità dello stesso Agide è, piú che rappresentata, illustrata e definita dalle altrui parole di elogio.

27 Nella prima vive soprattutto il tema dell’infelicità dell’uomo libero costretto alla disumana condanna dei propri figli e si giunge addirittura all’esclamazione finale di Bruto di essere «l’uomo piú infelice, che sia nato mai» (At. V, sc. 2, v. 261; in V. Alfieri, Bruto primo, Testo definitivo e redazioni inedite, ed. critica a cura di A. Fabrizi, Asti, Casa d’Alfieri, 1975, p. 94). Conclusione che corona il finale della lotta per la libertà non dei toni radiosi che malgrado tutto caratterizzavano il finale della Virginia, ma di toni cupi e dolorosi che sono peculiari della poesia eroico-pessimistica alfieriana nel suo fondo piú vero. E se nella seconda (la piú vicina a certi toni della virtú rivoluzionaria e giacobina) il finale si prospetta nell’accordo virtuoso e volitivo del popolo e del protagonista («a morte, o a libertà», At. V, sc. 3, v. 254; in V. Alfieri, Bruto secondo, Testo definitivo e redazioni inedite, ed. critica a cura di A. Fabrizi, Asti, Casa d’Alfieri, 1976, p. 98), questi ha però la sua vita piú vera dal tormento di dover opporsi violentemente all’uomo che piú ammira ed ama.